Siamo uomini di Farro

Siamo uomini di farro

 

Siamo uomini di farro. Anche se da pochi secoli mangiamo polenta di mais. Gli uomini di mais – hombres de maíz secondo il felice titolo di un romanzo del premio Nobel guatemalteco Miguel Ángel Asturias – sono i popoli mesoamericani. Quelli creati con le spighe del mais giallo e di quello bianco, quelli per cui mais, uomini e dei sono un tutto che non si può e non si deve separare.

Il mais è stato per secoli, ed è ancora, la base dell’alimentazione dei popoli della Mesoamerica, con i fagioli, la zucca e il peperoncino.

 

Il farro è stato, con qualche altro cereale e alcuni legumi,  la base della nostra alimentazione, sin da tempi remotissimi. Lo troviamo nella Bibbia: “Prenditi anche del frumento, dell’orzo, delle fave, delle lenticchie, del miglio, del farro, fattene un pane …”  (Ezechiele, 4: 9),  nell’antico Egitto dove ne ricavavano birra e pane, nella Grecia dell’epoca di Omero, dove rientrava anche nei riti sacrificali. Ma sono le popolazioni latine quelle di cui sappiamo con certezza che il farro costituiva la base della dieta. Secondo Plinio il Vecchio il farro fu in pratica l’unico cereale usato a Roma durante i primi secoli, e mai abbandonato anche quando alla sua coltivazione se ne accompagnarono altre.

Era considerato simbolo del nutrimento divino, tanto che persino il pestello usato per separare i grani dalle spighe, il pilum, era dedicato a un dio, Pilumnus, protettore dei neonati e delle puerpere. Un dio della vita!

Il secondo re di Roma, Numa Pompilio, aveva istituito i Fornacalia, in onore della dea Fornax, che proteggeva i forni dove il farro veniva tostato; in giugno, in occasione della festa di Carna, divinità tutelare delle parti vitali del corpo umano, alla farina di farro veniva unita una purea di fave, che doveva favorire la buona crescita degli organi interni dei più giovani. Presso il letto del Flamen Dialis, il sacerdote addetto al culto speciale di Giove, venivano posti un tipo di focaccia rituale a base di farro, il fertum, ricavato impastandolo con latte, fegato di pecora e sale, e gli strues, focaccine dolci a strati .

Anche quando il frumento prevalse nell’alimentazione quotidiana, il farro rimase essenziale nei cerimoniali religiosi concernenti il rex sacrorum, magistrato che presiedeva ai sacrifici, e le vestali.

 

 

 

 

 

 

Queste sceglievano e raccoglievano personalmente le spighe, poi in maggio, in giorni prestabiliti, le battevano, tostavano e macinavano, non con una macina girevole, ma con un mortaio a mano, e infine confezionavano la mola salsa. Questa era una focaccia di farro e sale lavorato in modo particolare, che sminuzzata si spargeva sul capo delle vittime da immolare. Il termine è collegato ai verbi molo (vedi l’italiano “molino” e “immolare”) e salio, salare.  La mola salsa era anche usata per purificare il focolare dopo la morte di una persona di casa.

I Romani tuttavia usavano il farro soprattutto per fare il pane e la puls, che fu per secoli il piatto più importante nella loro dieta. Si trattava di una polenta cotta in acqua salata, come quella di oggi. Veniva consumata da sola, come cibo dei più poveri, o con legumi, lardo, pesciolini, formaggio. Il commediografo Plauto scrive che “è manifesto che i Romani vissero per lungo tempo di puls, e non di pane”; più tardi Seneca attribuisce la crisi delle antiche doti morali alla perdita della frugalità di un tempo. Anche Virgilio, nell’Eneide, parla della puls, quando scrive che durante la navigazione da Troia al Lazio gli antenati dei Romani poterono nutrirsi quasi esclusivamente di polenta di farro, dei pesci che pescavano e della poca carne acquistata nei porti.

A base di farro erano anche certe focacce non lievitate, i panes laureati, aromatizzati appunto con foglie di alloro, e il libum, fra i cui ingredienti c’erano anche uova, olio, formaggio grattugiato, e che poteva essere addolcito con miele.

Interessante è che il farro era fondamentale nella cerimonia del matrimonio, la quale poteva svolgersi secondo due riti. Il principale era detto confarreatio, in quanto gli sposi dividevano e mangiavano assieme una focaccia di farro, come simbolo della vita in comune che stavano per intraprendere. La funzione doveva svolgersi alla presenza di dieci testimoni nati da matrimoni celebrati nello stesso modo, e probabilmente del flamen dialis;in quell’occasione Giove era chiamato Iuppiter Farreus e veniva onorato con un sacrificio. Per tale cerimonia si doveva immolare una pecora, sulla cui pelle si sarebbero seduti la sposa, con un velo rosso sul capo, e lo sposo. Insieme avrebbero poi compiuto tre giri attorno all’altare, procedendo verso destra, e infine avrebbero pronunciato “dove sarai tu Gaio sarò anch’io Gaia”. La  confarreatio, riservata esclusivamente ai patrizi, era condizione essenziale per poter essere eletti alle più alte cariche sacerdotali, e secondo Dionigi di Alicarnasso portava ad un matrimonio che niente poteva annullare. Anche se abbiamo perso il ricordo del suo significato, questa cerimonia si ripete ancora oggi, quando durante il ricevimento di nozze gli sposi tagliano assieme, con un unico coltello, la torta nuziale.

Tornando al pane, di cui i romani consumavano grandi quantità, poteva essere insaporito spalmandovi una ghiottoneria, il garum, una salsa più o meno liquida a base di pesce salato ed erbe aromatiche, che nella sua forma più economica era alla portata anche di contadini e soldati.

Molti continuarono ad usare cibi semplici a base di farro anche in età imperiale: ricordiamo Marziale, Giovenale, Plinio il Giovane, che in una lettera scrive di aver preparato per i suoi ospiti una cena con una lattuga, tre lumache e due uova ciascuno, poi olive, un pasticcio di farro e vino miscelato con miele e raffreddato nella neve. Altri invece, come il Trimalcione del Satyricon o il celebre Marco Gavio Apicio, vissuto a cavallo tra il I secolo avanti Cristo e il primo dopo Cristo, scialacquarono milioni di sesterzi in cibi rari ed elaborati, come pappagalli arrostiti o uteri di scrofa ripieni …

Le ricette indicate dallo stesso Apicio furono rielaborate attorno al 230 dopo Cristo, sotto il titolo “De re coquinaria”, l’arte culinaria, da un cuoco di nome Celio.

Travolto da migrazioni epocali, l’impero romano crollò. Ma non crollò il consumo dei cereali, tra cui il farro occupava un posto di tutto rilievo. Pani comuni, ma anche speciali, insaporiti con miele e spezie,  torte salate,  focacce, schiacciate con carni, verdure, frattaglie, formaggi. E le intramontabili zuppe e polente,  dove ai cereali lessi o macinati si accompagnavano tutti i sapori a portata di mano e di tasca, cipolla e lardo, rosmarino e olio, ceci, fave, salvia, erbe selvatiche, latte, formaggi, funghi, castagne …

 

 

Spighe di farro mature

 

 

La farina e i suoi derivati, dal pane alla pasta, dai ravioli alla pizza, alle frittelle, ai biscotti, alle torte – e fermiamoci qui – sono sempre presenti sulla nostra tavola, anche oggi. E la parola “farina”, in italiano e nelle sue varianti dialettali, in catalano e in occitano, “farine” in francese, “harina” in spagnolo, “farinha” in portoghese, “faina” in rumeno, prende origine da Far, il farro che accomuna cucine e culture. Siamo uomini di farro!